È piatta la terra, bassa e acquattata. È la fine di un luogo che mi sembra di conoscere, accarezzato e allungato dai fiumi. Tutto pare più lento e il cielo, giurerei, sembra più basso, al punto che i bambini potrebbero giocare a toccare le nuvole. Poco più in là il mare e ti sembra di sentire il salmastro nelle narici, mentre di fianco corre altero un argine. Strano per chi i fiumi li vede dal mezzo di una pianura, satre sotto a un argine e percepire il mare vicino.
Sono stata in un pezzo di Romagna, un tempo inzuppato dalle acque, fradicio di povertà e umido del sudore del lavoro di quelli che ci hanno abitato. Alcuni di loro sopravvivono ancora da quel tempo lontano, e raccontano. Intrecciano con le mani e le parole le trame delle vite, così strette che ti avvolgono. E finisce che ti ritrovi annodato dalla carice e dal giunco, erbe che tagliano, e sei sicuro che qualche segno te lo porti nell’anima fino a casa.
È soprattutto femmina il racconto dei nodi di Villanova di Bagnacavallo. Come poteva non esserlo? La trama e l’ordito stanno alle donne come la pesca, la caccia e l’agricoltura ai maschi. E loro, le donne, le ragazze e le bambine, hanno fatto le prime sporte che si attaccavano ai carri agricoli o stavano nelle barche, così permettevano l’accoglienza e il nutrimento.
Ho conosciuto l’Onelia e la Rosina, e chi abita sotto all’Emilia Romagna non sorrida di questi articoli determinativi davanti ai nomi propri di persona femminile e singolare, perché loro sono proprio l’Onelia e la Rosina, quelle due, quelle che a più di ottant’anni ancora piegano, sagomano, stringono per non dimenticare. Sono l’Onelia e la Rosina, e alcune altre compagne per esser precisi, che piegano e ti spiegano, quando le incontri, la fatica, le sedici ore di lavoro al giorno, la raccolta delle erbe e delle canne nelle paludi, gli urli di quando si entrava nell’acqua gelida (solo da dentro l’acqua si tagliano le erbe e a farlo erano sempre le donne), la nascita della cooperativa, gli intrecci a sei anni prima di correre a scuola, i bambini nel recintino a fianco e loro a fare sporte e stuoie. E poi se ti comperi una sporta (guai a chiamarla borsa) ti si avvicina la Rosina e ti dice l’ho fatta io, che ho ottantotto anni, l’ho stretta forte, questa ti dura per sempre, mio figlio è quello che vende i fiori in piazza. E poi ti sorride, di un sorriso incorniciato di rossetto fiammante e civettuolo.
La storia prosegue. L’Onelia e la Rosina continuano a dire degli intrecci, ammorbiditi dall’acqua, che le mani poi sono sempre bagnate (e provaci a stare tutti il giorno con le mani bagnate, magari d’inverno!), e di come quegli intrecci, in un magico momento, le abbiano fatte guadagnare addirittura come i muratori così da potersi comperare persino il frigorifero. Quanto lo ripete l’Onelia e con che soddisfazione che poi, a un certo punto, si è comperata addirittura il frigo. Lo fa intrecciando proprio in quel momento una stuoia, in piedi, con le mani veloci che non ci puoi credere, quasi non le stai dietro con lo sguardo.
C’è un pezzo di storia che vive a Villanova. Il ricordo è delicato come un sospiro, così ricco di sapienza. Loro, le Rosine e le Onelie, raccontano alle scolaresche, sono le regine delle feste del paese, fanno corsi di intreccio, ma mi sembra che un corso non possa bastare. Imparare vuol dire passare le ore e i giorni, i mesi e gli anni a fare, ripetere i gesti all’infinito, ascoltare, assimilare tutto: tecnica, saggezza, racconti, ricordi. Imparare è lavorare fianco a fianco fino al punto di interpretare anche i pensieri di chi ti sta vicino. Imparare è mettere in fila nozioni, rispettare persone, il tempo, le cose e accorgersi che quella è la vita. Mi sembra di poter dire che una volta di certo s’imparava, ora non so più.
Bisogna sentirsi in debito con gente come questa, per storie come queste. Basta vedere il catalogo della cooperativa fondata anni prima, esportava in tutta Europa e nei negozi più chic, per non capacitarsi di come tutto sia potuto finire e ci si sente un po’ colpevoli, vittime ignoranti e un po’ artefici di un sistema ingiusto. Se poi ti comperi una stuoia o una sporta, la Rosina ti sorride e capisci subito di avere per le mani un pezzo di quella che è stata l’Italia migliore, altroché!
Per sapere di più dell’Eco museo delle erbe palustri.
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