Aggiungere l’arte terapia

 

“… e poi sono diventato una porta che fa passare chi deve andare a lavorare.”

D., 7 anni, raccontando un suo disegno, durate una sessione di arte terapia.

Affrontando il terzo anno di formazione del corso di arte terapia di Art Therapy Italiana, non posso non soffermarmi sulle considerazioni che mi hanno portato a scegliere di cominciare a seguire questo percorso. Questo diventa anche l’occasione per poter poi fare il punto dello stato attuale: dove mi sento, cosa ho sperimentato e cosa mi interessa di più di questo esperienza di formazione.

Da anni, facendo molti laboratori artistici rivolti a utenti i più vari (dalla scuola al carcere, dalla comunità di accoglienza alle biblioteche, etc.), sentivo il bisogno di aggiungere “pezzi” alla mia offerta di atelierista. Ho cercato di farlo da sola periodicamente, fermandomi, ragionando, trovando nuovi contenuti e modalità di conduzione. Ho scritto molti progetti, non tutti realizzati, molti ambiziosi, faticosi da organizzare e da condurre, certi multidisciplinari con colleghi meravigliosi. Ho cercato, quando possibile, di assistere come uditrice ad altri laboratori, per intercettare gli stili di conduzione e i punti di vista di altri, guardando con particolare attenzione, stando da parte, anche le risposte dei partecipanti (osservazione non scontata quando si è conduttore, molto più immediata quando si è uditore, o “testimone” come si direbbe in arte terapia).

Sentivo di avere bisogno di un substrato ulteriore a cui fare attecchire gli anni di lavoro, qualcosa che fosse altro rispetto al contenuto delle tecniche artistiche, dei temi didattici e che fosse consolidato e autorevole, non frutto di una mia esplorazione solitaria, per quanto carica di buoni propositi di approfondimento. Ho individuato nell’arte terapia un forte motivo d’interesse, era un qualcosa che mi attirava da anni e, complice l’allentamento lavorativo da pandemia, ho intrapreso questo corso che, ora, incredibilmente, arriva al suo terzo finale. I primi due anni sono passati davvero velocemente.

DUE ANNI ANOMALI E DENSI

Incastrare una formazione nella propria vita lavorativa diventa uno sforzo molto grande. È anche un momento estremamente importante, diventa un segmento di vita prezioso. Quello che mi è stato chiaro fin da subito è stato il fatto che, con lo studio dell’arte terapia mi sono innanzitutto concessa dei frammenti di vita per me, solo per me come non facevo da tempo, per una crescita di professionalizzazione, e per me in qualità di individuo, per il mio benessere, per cui mi sono ricavata momenti in cui solo il mio progetto di formazione aveva diritto d’essere e il resto della vita, soprattutto lavorativa, è potuta rimanere (felicemente) fuori.

Mi sembra di poter dire, riprendendo un punto introduttivo al discorso sul “cosa sia l’arte terapia” di Paola Luzzatto, che questo percorso abbia stimolato la mia crescita psichica sia a livello identitario, che relazionale e professionale. L’enfasi al lasciarsi andare da un mondo interno a quello esterno e viceversa come dinamismo fondamentale dell’arte terapia “ci fa crescere a livello psichico: ogni individuo dovrebbe riuscire a ricevere senza sentirsi invaso, e a dare senza sentirsi deprivato, provando piacere sia nel ricevere che nel dare.”[ (Paola Caboara Luzzatto, Arte terapia, una guida al lavoro simbolico per l’espressione e l’elaborazione del mondo, Cittadella editrice, Assisi, 2018, p.31.)

AVERE UN BAGAGLIO IN PIÙ

La primavera 2022 ha segnato quello che sarà, spero, l’inizio di una tanto attesa “quasi normalizzazione” nelle nostre vite spezzate dalla pandemia: sono ripartiti decisamente i laboratori nelle scuole in presenza per gli “esperti esterni”. Tornare a fare laboratori nelle scuole come nelle biblioteche, alla luce di due anni di formazione in arte terapia, ha sicuramente aggiunto un tassello importante a questa parte del mi lavoro che ormai mi accompagna da più di vent’anni.

Innanzitutto mi ha dato consapevolezza dell’importanza del gruppo e della forte identità che questo ha se viene valorizzato. Diversamente da prima, cerco di porre più attenzione all’accoglienza e alla chiusura; quest’ultima non deve essere uno sfilacciamento del gruppo, ma deve essere un momento di insieme, corale e condiviso.

Trovo, però, alcuni problemi che limitano la gestione del gruppo nella maniera migliore, in base all’ottica dell’arte terapia: le classi, così come certi laboratori a utenza libera, sono spesso molto numerose; esistono delle aspettative da parte di chi richiede il laboratori, che riguardano un passaggio didattico, un insegnamento specifico (una tecnica artistica, ad esempio) e/o la produzione di un certo manufatto (il disegno, il libro, un oggetto artistico in generale); inoltre, soprattutto nell’ambito della scuola, ci troviamo in dinamiche estremamente giudicanti, difficili da scardinare anche in situazioni di eccezioni come i laboratori condotti da un esterno. Gli insegnanti tendono a rimarcare quali siano i risultati corretti da perseguire, così come i comportamenti da tenere. Può essere che anche i tempi e gli spazi non siano congeniali all’esperienza del gruppo. Detto questo, mi sembra che uno sguardo d’insieme al gruppo con un’attenzione più viva a dinamiche dei presenti e dei loro processi creativi, oltre all’insegnamento pedissequo del contenuto in sé del laboratorio, porti un grande miglioramento, sapendo che il carico di lavoro a questo punto, con questo surplus di attenzione e tutto concentrato nel lasso di tempo del laboratorio, si amplifica per chi li conduce: questa cosa va presa in considerazione a priori, per affrontare al meglio il gruppo classe.

Il valore aggiunto dello sguardo dell’arte terapia sui gruppi legati ai contenuti di didattica in generale, artistica nello specifico del mio interesse, mi sembra talmente evidente che vorrei diventasse il mio argomento di tesi. So che sarà fondamentale trovare la possibilità di sperimentare praticamente nei gruppi classe, sperando che le problematiche pandemiche non creino ulteriori ostacoli.

Sul tema imprescindibile del “vedere” e “essere visti”, leggendo il Codice dell’anima di James Hillman, una prosa affascinante e resa ancora più intrigante da un’impuntura continua di biografie di personaggi famosi, ma, devo dire, decisamente lontana a temi psicologici di scuola differente a cui  mi sento più vicina, ho trovato però interessantissimo, nel capitolo Esse est percipi , il punto in cui si dice:

“Vedere è credere, credere in ciò che si vede, e questo fatto conferisce immediatamente il dono della fede alla persona o alla cosa che riceve lo sguardo. Il dono della vista è superiore ai doni dell’introspezione. Perché tale vista è una benedizione: trasforma.” (James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, pp.158-159). Notando che il sistema scuola inquadra le classi sempre più come luoghi di produzione e di raggiungimento di obiettivi, credo che ripartire dallo sguardo sul gruppo e sui singoli diventi un’azione davvero interessante e di ricerca e valorizzazione della diversità che porta un gruppo.

Ringrazio MondoDonna Onlus e Società Dolce – Settore Fragilità, per un’esperienza di messa in pratica dell’arte terapia, in un contesto sì diverso dalla scuola, ma dove la potenza del restare, dello sguardo, dell’ascolto e dell’accoglienza, sa trasformarsi in un “luogo sicuro” in cui fare scaturire relazioni di fiducia e momenti di espressività sincera e intima. In questo progetto, ho avuto l’occasione di condividere il percorso con una professionista straordinaria, Giulia Taddia, musicoterapeuta e psicologa. Con lei ho potuto declinare musica e improvvisazione con materiai artistici e arte terapia. La combinazione ci è sembrata veramente potente e significativa. Ne parliamo in questa intervista per cui ringrazio Medea Calzana e la sua attenzione.

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